IL MULINO DEI PENSIERI

“C’era una volta,
in un piccolo paese un mulino, anzi due. Tutti ci andavano volentieri anche solo per scambiare due parole. Il mugnaio era una brava persona. Faceva bene il suo lavoro. Aveva una moglie premurosa e dei figli riconoscenti. Un uomo semplice ma speciale. A differenza della maggior parte dei suoi compaesani, lui sapeva leggere e far bene di conto.
E soprattutto era curioso. Voleva capire le cose e poi spiegarle.“

Sembra l’inizio di una favola,… ma non è così.
Anzi si tratta di una storia difficile da trattare con la coscienza di oggi.

Quando si parla di inquisizione si è spesso portati a pensare ad un epoca oscura piena di streghe, maledizioni e demoni. Un mondo che il filtro ottocentesco ci ha trasmesso in chiave gotica e tenebrosa. Visualizziamo subito segrete buie dove figure sadiche esercitano il loro uffizio in nome di una verità indiscutibile. Molta letteratura ci rimanda a queste impressioni. Anche le pitture visionarie di Bosch e Brueghel, di pochi anni anteriore, ci ricordano la paura delle dannazioni. Dal XX° secolo, è soprattutto il cinematografo ad offrirci immagini inquietanti di ingiustizie palesi e crudeli. Non sono certo tutte fantasie, questo lo sappiamo, ma queste suggestioni non ci devono distrarre dal interessante e profondo contenuto della vicenda narrata nell’opera. Intendo l’uomo Menocchio, con tutto il suo pensiero e la sua caparbietà nella certezza che non esisteva una fatale condanna all’ignoranza per nessuno.
In lui non vi erano dubbi che le classi agiate non fossero le sole preposte al sapere e al pensare. E’ commovente percepire il suo senso di giustizia, il suo alto profilo morale. Quest’uomo, con il suo processo, ci permette di conoscere la vita del suo tempo. Ci accompagna attraverso le paure e le negazioni dei suoi compaesani, restando fermo sulle sue posizioni.
La sua audacia nello studiare e il volere condividere le sue scoperte lo stavano resero sospetto. Se una simile presa di coscienza si fosse diffusa, il potere avrebbe dovuto cambiare fisionomia. Erano gli anni di Lutero e bisogna tenere presente che Menocchio era un mugnaio e non un aristocratico studioso. La sua cosmologia viaggiava assieme alle persone che passavano dal suo mulino. Menocchio era un uomo troppo emancipato per non rendersi conto di cosa gli stava succedendo attorno. Ma era troppo forte anche la sua fiducia nel rivendicarla.
Non poteva tacere, almeno non per sempre e questo gli costò tutto … e lo sorprese.
Ma i dubbi non sono solo da una parte. Anche l’inquisitore veste un difficile ruolo. A lui spetta dare delle risposte ed applicare delle regole. Perfino lui sente il soffio gelido della morte sempre presente in scena. Il suo insindacabile giudizio deve sbrogliare il groviglio delle parole e tradurle in sentenze. Lo fa onestamente con convinzione e cercando di capire se veramente esiste eresia nelle chiacchiere del Menocchio. Era stata la lettera di un delatore a farlo incriminare. Ascolta e controbatte.
Menocchio parla e parla ancora. Ma purtroppo in quell’epoca era come sfidare a scacchi il tristo mietitore di bergmaniana memoria. Ma qui non si parla di turbati cavalieri tornati dalla Terra Santa.
Qui ci si interroga su idee e conoscenza. Si tocca con mano la capacità di sviluppare un pensiero originale. Una minaccia costantemente suggerita dalle parole. Avere delle opinioni e cercare di diffonderle, anche solo come chiacchiere da osteria può essere pericoloso. Sappiamo ancora oggi quanta diffidenza susciti il pensiero autonomo.

Ma Menocchio, a modo suo, era ottimista e ricominciò a parlare … ma poi … smise.

Ivan Stefanutti